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La logica del mito e clinica psicoanalitica dell'insularità tra confinamento e apertura all'alterità

Abstract

L’isola è il luogo fisico in cui le alterità prendono una forma precisa. Ma ciò che ci interroga in maniera diretta, non sono le inquietanti dimensioni corporee dell’altro, seppure rinviano al vissuto d'impotenza e d'inermità di fronte al Reale - quanto piuttosto il suo vivere da solo e il suo avere un solo occhio, palesemente non dotato di ciò che serve per vivere l’alterità. I ciclopi, dice il mito, vivevano sulle pendici dell’Etna, ciascuno isolato dagli altri. Un “Popolo di soggetti soli”; un insieme di solitudini, non fa una civiltà. Un insieme di «uno da solo» avrebbe detto Lacan negli anni settanta; destino che intravedeva per il soggetto della modernità e della post modernità. Ma già i greci sapevano che senza la possibilità di una nominazione univoca, senza la molteplicità dei significanti, la domanda di aiuto del soggetto è destinata a restare inutilizzabile. Lo sapeva già Omero, il quale al suo Ulisse, dopo avergli fatto privare Polifemo del suo unico occhio, gli insegna come sottrargli anche la possibilità di ottenere aiuto dai suoi simili, facendogli denegare il nome e facendolo entrare nella moltitudine degli uguali - nell’inferno dell’uguale. In quella condizione per cui l’essere tutti uguali, destina alla condizione di non potersi nominare se non come: «Nessuno». Ma se io senza l’altro sono nessuno, questo significa che la mia vita, la mia esistenza, dipende dall’altro.

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